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Li chiamiamo mostri, soggetti umanoidi dalle straordinarie capacità mutaforme. Come esseri provenienti da leggende ottocentesche o dai grandi racconti dell’orrore di King. Eppure, coloro che un tempo venivano raffigurate come creature innaturali dalle caratteristiche fisiche tali da suscitare nell’uomo sdegno e terrore, oggi sembrano aver raggiunto il massimo della loro evoluzione: quella umana. Questi individui capaci di ogni male hanno assunto sembianze comuni, sempre più simili a quelle che rientrano nei canoni sociali. Eh sì, perché mostro, almeno un tempo, era colui che nell’aspetto riportava numerosi segnali distintivi, soprattutto fisici. Il termine, infatti, cela al suo interno una storia antica, un racconto che potremmo ricercare all’interno del suo significato letterale:

Come sottolinea E. Benveniste (1969): il termine si lega sostanzialmente sia a monere, “ammonire”, sia a monstrare, “mostrare”, nel senso di “indicare una condotta” e “prescrivere la via da seguire”. Monstrum è allora un avvertimento divino che non potrà che prendere l’aspetto di un essere sovrannaturale. L’evoluzione della parola latina monstrum avverrà assumendo il senso della parola greca τέρας. In alcuni passaggi dell’Eneide, monstrum prende infatti l’accezione di “fatto prodigioso” che stupisce per il suo carattere meraviglioso. L’evoluzione semantica delle parole τέρας e monstrum rivela che il solo significato che sussiste sempre è: ciò che esce dal comune, l’essere straordinario, specialmente nel significato di essere anormale, dunque contrario alle leggi della natura.

E ancora:

Nella dottrina dei presagi, un mostro significava un insegnamento, un avvertimento divino. Proprio in questo senso tutto quanto usciva dal quadro dell’ordine naturale, dal cerchio della consueta esperienza dell’uomo… . (Franco Cardini)

Anormale, dunque, non riguarda puramente le caratteristiche estetiche e fisiche, ma ciò che va al di là delle leggi della natura. In poche parole: ciò che non concepiamo come usuale e ordinario. Il mostro delle leggende e dei racconti, invece, veniva raffigurato in modo diverso da quello odierno, che sembra avere connotati molto simili a quelli dell’essere umano. Ecco perché risulta sempre più difficile riconoscerli: ci affidiamo sempre e solo all’immagine del mostro con due teste, dell’essere sovrannaturale dai poteri ipnotici, crediamo in qualche modo che colui che perpetra il male sia differente da noi. Quelle caratteristiche fisiche, tuttavia, erano necessarie per suscitarci ribrezzo e paura attraverso il racconto fatto di descrizioni e illustrazioni. Oggi, però, occorre chiarire una volta per tutte che il mostro, quello vero, si cela spesso all’interno di candidi corpi, volti angelici dagli occhi seducenti e apparenti gesti amorevoli.

Come riconoscerli, dunque? Ma soprattutto, come difenderci da questi esseri dal corpo umano e dalla mente deviata?

Sono tanti, innumerevoli i fattori da tenere in considerazione, ma cercherò in questo articolo di mostrarvi i segnali che in qualche modo possono scatenare una serie di effetti collaterali, soprattutto all’interno della mente umana. Effetti in grado di azionare la leva più oscura e velata, quella insita in ognuno di noi.

Partirei con un breve racconto di tre casi di cronaca differenti, apparentemente sconnessi tra loro, analizzando i vari fattori che hanno alimentato la creazione del mostro all’interno dei killer protagonisti di queste storie. Ci tengo, prima di partire, ad avvisare il lettore estremamente sensibile alla lettura di particolari macabri. Il mio compito non è quello di raccontare storie, ma di mostrare ciò che spinge un essere umano a trasformarsi in mostro. L’intento è quello di divulgare elementi essenziali al fine di riconoscere in tempo le condotte devianti cercando di studiare e approfondire insieme questi eventi, in modo da educare il più possibile le nuove generazioni.

Come nasce il mostro dentro di noi?

2 agosto 1993, New York – Eric Smith, aveva solo 13 anni quando strangolò e uccise Derrick Robbie (di anni 4), in un parco nella contea rurale di Steuben, New York. Secondo la CBS news, e i rapporti sul caso, Eric avrebbe attirato l’attenzione di Derrick fino a trascinarlo con l’inganno all’interno del parco, per poi strangolarlo. Derrick, almeno secondo le prime ricostruzioni, era disteso e privo di sensi quando Eric lo colpì in testa con dei sassi. La ferocia del gesto e le modalità con cui venne perpetrato l’omicidio indirizzarono gli inquirenti verso la pista più ovvia: il killer era un adulto. Non potevano immaginare che il mostro, in realtà, aveva assunto le sembianze di un bambino di 13 anni. Nonostante le innumerevoli proposte da parte della sua difesa, Eric Smith venne processato come un adulto e condannato all’ergastolo. Passò più di 27 anni in carcere e ottenne la libertà condizionale solo nel febbraio del 2022.

Ora, qualcuno di voi potrà pensare che il male era già insito nel ragazzo e che probabilmente era nato con qualche patologia o disturbo psicologico tale da innescare in lui un comportamento distruttivo così grave da cagionare la condotta omicida, ma sarebbe una spiegazione fin troppo semplicistica.

Dalle indagini emerse un quadro piuttosto chiaro: Eric veniva costantemente bullizzato dai compagni di classe che lo prendevano in giro per via del suo aspetto. “Rosso malpelo”, così veniva soprannominato a causa del colore dei suoi capelli; in più dovete sapere che, a quei tempi, era molto diffusa la “leggenda” secondo la quale i bambini dai capelli rossi erano considerati la reincarnazione del diavolo. Stiamo parlando di leggende, eppure erano in molti (e lo sono ancora adesso) i sostenitori di questa tesi (assolutamente infondata e ridicola).

Tornando al caso, lo psichiatra della difesa, durante il processo, ebbe modo di studiare i comportamenti del giovane assassino. La conclusione del medico fu la seguente: “Disturbo esplosivo intermittente”. Eric, insomma, non era in grado di controllare e gestire la propria rabbia. Dunque, le continue vessazioni da parte dei compagni avrebbero in qualche modo innescato il meccanismo perverso all’interno della mente del tredicenne. Lo stesso, durante un’intervista avrebbe affermato di immaginare il volto dei suoi compagni mentre compiva l’atto brutale. Durante gli anni di prigionia, inoltre, ha mostrato evidenti segni di sdegno, rimorso e più volte ha affermato:

“Se potessi scambiarmi di posto con lui nella sua tomba per farlo vivere, lo farei in un secondo”.

Certamente, col senno di poi, siamo tutti in grado di tessere un quadro specifico sulle azioni di un individuo, tuttavia esiste un modo per poter captare in anticipo i segnali di aggressività e violenza.

Tuttavia, prima di trarre le giuste conclusioni, desidero proseguire con altri due casi:

3 novembre 1988, Jacksonville, Florida – Il 14enne, Joshua Phillips, strangolò e uccise Maddie Cliftonk, una bambina di 8 anni (vicina di casa). La sua ferocia, purtroppo, non si esaurì con questo gesto, ma trascinò il corpo della piccola all’interno della sua stanza. Una volta in casa, però, scoprì che il cuore di Maddie batteva ancora. Preso dall’ansia di essere scoperto raccolse una mazza da baseball e la colpì ripetutamente per poi accoltellarla e ucciderla.

A rinvenire il corpo della povera Maddie fu proprio la madre di Joshua che, in preda al panico, chiamò la polizia e denunciò il figlio.

Secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti (e dalle confessioni dello stesso Joshua), egli avrebbe agito spinto dall’ansia e dai rimproveri costanti del padre. Joshua, infatti, il giorno dell’omicidio stava giocando con Maddie nel giardino di casa, quando improvvisamente la colpì alla nuca. Il gesto fu accidentale, ma Maddie iniziò a piangere disperatamente; così, Joshua, per paura che il padre sentisse i lamenti, la accompagnò in casa. Una volta in camera, però, Maddie avrebbe continuato ad urlare e Joshua decise così di zittirla una volta per tutte.

Gli psichiatri coinvolti nell’accertamento della condotta del minore non furono in grado di stabilire un nesso tra la condotta di Steve (il padre di Joshua) e l’omicidio, ma dagli interrogatori dei familiari emerse un quadro piuttosto chiaro: Steve era un padre ostinato e violento, oltre che tossicodipendente e alcolizzato. Un quadro, questo, che non è mai stato confermato o smentito. Non risultano infatti denunce né prove concrete, a parte le testimonianze rese dal fratellastro di Joshua e dalla madre.

Il caso si concluse con l’arresto di Joshua e la condanna al carcere a vita dello stesso, senza possibilità di libertà condizionale. Ormai sulla trentina, Joshua Phillips è attualmente incarcerato presso il Tomoka Correctional Institution di Daytona Beach, in Florida.

Un altro caso, questo, che pone l’accento sull’incapacità di mantenere il controllo, evidenziando un elemento in comune: la violenza subita dai due giovani, seppur in modo differente (il primo dai compagni, il secondo dal padre).

Proseguiamo con l’ultimo caso:

Luglio 1968, Newcastle upon Tyne – L’undicenne Mary Flora Bell uccise Martin Brown (4 anni) e Brian Howe (3 anni), nel dicembre del 1968. Il suo caso, uno dei più famosi nel Regno Unito, evidenzia ancora una volta quanto l’educazione familiare sia rilevante, soprattutto nella fase preadolescenziale.

Mary Bell, infatti, è cresciuta in un’ambiente familiare disfunzionale in cui la figura materna si procurava da vivere prostituendosi. Dalle ricostruzioni si evince un quadro piuttosto critico della situazione perversa alla quale la povera Mary Bell era sottoposta: i clienti della madre spesso si approfittavano di lei e coinvolgevano la figlia nelle loro sporche fantasie perverse. Mary Bell aveva solo 4 anni e viveva costantemente circondata da violenza e depravazione. Questo ha deviato la sua mente, così giovane e innocente, verso un destino già scritto: quella del mostro.

Il duplice omicidio avvenne a 7 anni di distanza da quelle violenze, ripetute e costanti. Martin e Brian sono stati vittime di una minore la cui mente fu condizionata e deviata dall’ambito familiare. La crudeltà dei fatti e la violenza sono, anche in questo caso, il risultato di un’inadeguata educazione perpetrata negli anni, soprattutto in una delle fasi più cruciali della vita di un individuo.

Mary Bell fu ritenuta psicopatica e condannata all’ergastolo per doppio omicidio volontario. Ritrovò la sua libertà solo nel 1980, quando venne scarcerata. Iniziò così una nuova vita, possibile grazie all’anonimato, insieme alla figlia (avuta nel 1984).

Tre casi diversi in tre ambienti differenti, ma con un finale comune: quello della morte.

Lo abbiamo visto negli ultimi casi di cronaca, nei femminicidi che coinvolgono minori o ragazzi molto giovani. I dati Istat circa l’aumento delle violenze sono sconvolgenti, un campanello d’allarme che non possiamo più permetterci di trascurare!

Quindi, come possiamo fermare tutto questo?

Queste tre storie racchiudono alcuni fattori scatenanti: quello che si cela all’interno delle mura domestiche e quello sotto forma di bullismo nelle scuole, ma esistono tanti altri moventi. Basti pensare al fatto che l’educazione non passa soltanto attraverso i valori genitoriali, ma anche a quelli scolastici e sociali. Nel momento stesso in cui veniamo al mondo siamo bombardati da modelli educativi e sociali di cui non abbiamo il controllo. Un minore non sceglie né la propria famiglia biologica né i propri compagni di classe, ma sceglierà sicuramente la compagnia che più si avvicina ai valori che ha assimilato negli anni.

Solo crescendo impariamo a pensare con la nostra testa, anche se continuiamo a portare con noi paradigmi inconsci trasmessi dalla nostra famiglia.

Sembra uno scioglilingua, lo so, ma purtroppo l’unico modo che abbiamo per cercare di prevenire questi fenomeni violenti è uno solo: educare fin dalla tenera età.

L’educazione, infatti, ci permette di eliminare quei paradigmi devianti che sono insiti all’interno delle menti di coloro che hanno subito violenze o che sono cresciuti in contesti disfunzionali. Ovviamente, i mostri si annidano anche all’interno delle cosiddette “famiglie del mulino bianco”, questo proprio perché ci sono tantissimi fattori da tenere in considerazione quando ci troviamo di fronte a questo fenomeno. Tuttavia, esistono differenti elementi capaci di evidenziare i comportamenti devianti, prima che sfocino in atteggiamenti violenti: sbalzi d’umore frequenti, isolamento sociale, irascibilità, mancanza di empatia nei confronti di animali e persone, piccoli furti, utilizzo di droghe o alcool e molto altro ancora.

Secondo Galimberti (psicoanalista, filosofo e giornalista italiano) è possibile stabilire un contatto con il proprio figlio fino ai 12 anni di età.

Subito dopo, infatti, il minore inizierà a seguire il proprio istinto, ribellandosi alle regole imposte dai propri genitori. Quello che possiamo fare, sia a casa che a scuola, è guidare i nostri figli verso un’educazione più amorevole e consapevole. L’arco che comprende la prima infanzia e la preadolescenza risulta essere quello più complesso, certo, ma rappresenta anche quello più formativo. Abbiamo la possibilità di indirizzare i minori verso un futuro migliore, tuttavia per farlo dobbiamo imparare ad ascoltarli. Non è un caso se questo viene definito “il mestiere più difficile del mondo”, non esistono infatti manuali o aiuti di alcun tipo per i genitori. Occorrono risorse, strumenti e nuove leggi in grado di restituire più libertà e indipendenza economica a tutte quelle figure che in qualche modo formano i giovani di domani: insegnanti, educatori, genitori, tutori e psicologi.

Un paese che non investe in queste figure, soprattutto in quelle che trattano la salute mentale, sta condannando per sempre il futuro delle nuove generazioni. I mostri, infatti, crescono in ambienti bui, umidi, privi di amore ed empatia. Queste creature possono avere qualsiasi età e possono celarsi dietro qualsiasi volto, anche quello più rassicurante. Basta solo dar loro un valido motivo per uscire allo scoperto.

Silvia Morreale

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