4 gennaio 2024: si torna a parlare dello strangolatore di Bratislava.
Un omicidio avvenuto nella notte ha risvegliato gli incubi della capitale slovacca: sto parlando del caso Jozef Hanuska, lo chef di 47 anni che ha brutalmente ucciso la sua compagna Patricia. La particolarità di questo caso, però, non sta solo nell’efferatezza del delitto, ma anche e soprattutto in un elemento che ha colto alla sprovvista numerosi detective: Jozef, infatti, non è altro che il figlio del noto e temuto “Strangolatore di Bratislava”.
Ma partiamo dal principio
Dalle prime ricostruzioni del caso, risulta che Jozef sia stato accusato della morte della compagna a seguito del rinvenimento del corpo di lei all’interno dell’appartamento che i due condividevano a Bratislava.
“Secondo quanto riferito, il suo presunto assassino le avrebbe tagliato diversi organi più un pezzo di coscia, prima di mettere tutto all’interno di un secchio vicino al suo letto. Secondo i media locali, il cuore della vittima si trovava sul pavimento. La raccapricciante disposizione vedeva il suo corpo coperto da un lenzuolo su cui era posizionato il passaporto. Nella notte di venerdì, la polizia ha rintracciato e arrestato Hanuska che si nascondeva all’interno di una cantina locale.”
Dalle numerose testimonianze è emerso un quadro piuttosto chiaro: secondo i vicini di casa, Jozef era violento e i litigi tra i due coniugi erano spesso frequenti.
Cosa c’entra questo caso con quello di Štefan Pantl, il famoso strangolatore di Bratislava?
Rispolverando il caso, sono rimasta molto colpita da una testimonianza rilasciata per un quotidiano locale slovacco: una donna, che conosceva e frequentava il killer, disse che Pantl era una persona tanto gentile con gli estranei quanto crudele nei confronti del sesso opposto. Secondo la testimone, infatti, lo strangolatore di Bratislava avrebbe sofferto della “sindrome di Bonaparte”, in poche parole: la sua piccola statura gli avrebbe causato numerosi problemi a livello psicologico.
“Così piccolo, velenoso e violento. Era un narcisista. Pensava che le sue donne dovessero amarlo e basta”.
La descrizione della testimone è raccapricciante ed evidenzia un quadro psicologico piuttosto chiaro. Pantl riversava tutte le sue insicurezze sulle donne che frequentava, alimentando l’odio nei confronti di quelle persone che lo avevano da sempre umiliato per via della sua statura. Il killer venne poi accusato e condannato alla pena capitale solo nel 1981, per aver violentato e ucciso brutalmente due donne.
Quando mi imbatto in casi come questi, non posso far altro che ripensare alla mia prima lezione di medicina legale in accademia. Infatti, una delle domande che veniva spessa posta al mio professore era la seguente:
“Può la violenza essere in qualche modo trasmessa di generazione in generazione?”
Insomma, il gene omicida è ereditario?
Per rispondere a questa domanda occorre fare una ricerca ben più complessa e specifica. Quando parliamo di genetica (o più in generale cerchiamo di stabilire un nesso tra un comportamento violento e l’autore dello stesso), spesso tendiamo a tralasciare diversi fattori che sono fondamentali per comprendere appieno questo fenomeno. L’errore, infatti, è spesso quello di semplificare il discorso ricercando la causa di tale atteggiamento all’interno di un solo fattore scatenante.
In questi due casi di cronaca differenti possiamo notare come la matrice violenta funga da comune denominatore, quindi il soggetto inesperto potrebbe ritrovarsi ad affermare la famosa frase: “Tale padre, tale figlio”. Eppure, questi due eventi drammatici non sono in nessun modo collegati se non nella coincidenza.
Cerchiamo, dunque, di analizzare i fattori utilizzando uno spirito critico.
Come amo sempre ricordare, non basta un solo fattore a scatenare il mostro che c’è in noi ma questo, preso singolarmente, può sicuramente contribuire e influenzare il nostro comportamento e le nostre scelte nel tempo. Nel caso in specie ci troviamo di fronte a due individui stratti da un legame di sangue, dunque se ci basassimo solo su questo elemento potremmo avanzare la tesi secondo cui chi nasce in una famiglia disfunzionale è condannato a una vita di violenze e crudeltà.
Ma ne siamo proprio sicuri?
Se analizziamo il profilo psicologico dei più grandi Serial killer, possiamo notare come una buona percentuale abbia subito violenze fisiche e psicologiche, inoltre è spesso presente la componente disfunzionale all’interno delle famiglie. Questo, però, non basta! Ci sono tantissimi esempi di famiglie per bene in cui i figli hanno perpetrato un crimine più o meno violento.
Vi basterà pensare al caso Benno (il ragazzo che ha ucciso entrambi i genitori), a Erica e Omar o a Filippo Turetta (che ha ucciso la ex fidanzatina Giulia Cecchettin). Ci troviamo di fronte a famiglie normali e non a situazioni disagianti, eppure il mostro è uscito comunque allo scoperto.
Allora qual è il vero movente?
Come può, insomma, una persona apparentemente normale trasformarsi in uno spietato serial killer?
Prima di addentrarci nella mente criminale, occorre fare qualche chiarimento: sappiate che non esiste un’unica risposta chiara e universale. Ogni caso è a sé stante: occorre analizzare ogni singolo elemento di quel dato omicidio per tracciare un profilo psicologico chiaro e completo.
Si passa al setaccio: la scena del crimine, la vittimologia, lo storico del killer, la famiglia, le abitudini e ogni altro elemento utile ai fini d’indagine. Tutti questi fattori non sono reperibili online, dunque evitiamo di credere a chi basa la propria opinione su mere informazioni raccolte chissà dove.
Solo coloro che sono coinvolti in maniera attiva e diretta al caso in questione possono conoscere questi elementi: la polizia investigativa, i Ris, i medici legali, gli avvocati, i consulenti tecnici e tutti gli altri professionisti del settore.
Quindi, per rispondere alla domanda da un milione di dollari, non esiste un unico elemento in grado di scatenare la furia omicida di un soggetto. Nel caso di Erika e Omar, così come in quello di Benno, è emerso un quadro piuttosto simile: il genitore viene visto come il nemico da abbattere per ottenere un vantaggio. Benno e Erika volevano vivere al di là di quelle che erano le regole poste dai propri genitori e hanno visto come unica possibilità quella di eliminarli. Questa visione così narcisistica e assolutamente crudele ci mostra una realtà piuttosto comune: genitori visti più come ostacoli che come degli adulti da rispettare.
Nel caso di Filippo Turetta, invece, appare più che evidente l’elemento del possesso che troppo spesso viene fuori all’interno delle relazioni (soprattutto da parte degli uomini che vedono la propria compagna più come una proprietà piuttosto che una persona). Questo, ovviamente, vale anche per gli uomini, ma tratterò l’argomento in un articolo a parte.
Tornando al caso possiamo dire che, sicuramente, lo chef Jozef ha subito delle ripercussioni dovute alla “fama” di suo padre, che era appunto conosciuto come lo strangolatore di Bratislava, ma questo non basta a stabilire un nesso di causa-effetto. Basandomi sulle prime accuse, visto che il caso non è ancora chiuso, se Jozef ha davvero ucciso la sua compagna possiamo soltanto basarci sui singoli elementi del caso.
Dalle testimonianze possiamo affermare come l’atteggiamento dello chef fosse sempre stato violento e reiterato nel tempo, dunque i campanelli di allarme c’erano già (al di là del passato di suo padre). Se poi, a queste, aggiungiamo magari un abuso di alcool e droghe e un ambiente privo di amore e serenità, ecco che otteniamo il cocktail perfetto per questo omicidio.
Se analizziamo ogni caso come se fosse unico possiamo estrapolare da esso elementi fondamentali per tracciare il profilo di un killer, ma questo possiamo applicarlo anche nella vita di tutti i giorni. La psicologia, infatti, ci insegna che ogni individuo è diverso, ma il comportamento dello stesso può rivelarci molto sulle sue intenzioni.
Dunque, cerchiamo sempre di focalizzarci sull’atteggiamento che determinati individui hanno prima di compiere un delitto: l’esempio lampante è quello evidenziato dagli inquirenti nei vocali di Giulia Cecchettin, in cui lei stessa esprimeva preoccupazione nei confronti di Filippo.
Dobbiamo cercare di insegnare ai nostri figli, ma in primis a noi stessi, quanto sia importante e rivelatore il comportamento. Se impariamo a cogliere i segnali in tempo potremmo davvero salvare noi stessi e tutte le persone che amiamo.
Silvia Morreale
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