Inauguriamo questo primo mercoledì crime del 2024 con un caso irrisolto tra i più efferati della storia statunitense: sto parlando del caso Black Dahlia.
15 gennaio 1947 – Il corpo della ventiduenne Elizabeth Short fu rinvenuto privo di vita in un quartiere di Los Angeles. La donna, soprannominata “Black Dahlia” dalla stampa, per la sua presunta passione per i vestiti neri trasparenti e per il film Blue Dahlia uscito in quel periodo, era una promessa stella di Hollywood. Giovane, capelli neri, occhi verdi, descritta dal Daily Police Bulletin come “molto attraente”. Quello che, però, sconvolse la città di Los Angeles non fu tanto il rinvenimento del cadavere, ma la violenza inaudita con cui il killer uccise la giovane!
“Le foto della scena del crimine mostravano che a Short era stata praticata l’emicorporectomia: una procedura di chirurgia radicale in cui si amputa la parte del corpo sotto la colonna lombare, l’unico punto in cui il corpo può essere tagliato a metà senza rompere l’osso.”
Questa era una procedura che veniva insegnata ai giovani medici negli anni 30’, ma su questo punto ci torneremo tra poco.
Tornando al caso, nel marciapiede in cui fu ritrovato il corpo non c’era alcun segno di materiale ematico, dunque la donna era stata uccisa sicuramente in un altro posto e il suo corpo trascinato e scaricato solo successivamente in quel quartiere.
Nonostante la tecnologia non fosse ancora molto sviluppata, gli agenti dell’FBI di Los Angeles riuscirono a identificare l’identità della giovane grazie alle impronte digitali. Dai fascicoli, infatti, risultavano due impronte prese proprio alla vittima in due momenti differenti:
- il primo indicava una richiesta di lavoro effettuata dalla stessa Elizabeth per la posizione di impiegata, presso il commissariato dell’esercito di Camp Cooke in California nel gennaio 1943;
- il secondo, invece, riportava l’arresto della Black Dahlia per uso di alcool in minore età.
Nonostante gli innumerevoli sforzi dell’FBI e la pressione mediatica dovuta non solo alla notorietà della giovane, ma anche alla brutalità ed efferatezza dell’omicidio, il caso venne presto archiviato. Non c’erano prove, né abbastanza elementi per poter stilare un profilo del presunto killer.
Ricordiamoci, inoltre, che stiamo parlando degli anni ’40, dobbiamo dunque attendere ancora trent’anni prima di iniziare a utilizzare il metodo di profilazione criminale.
Ricapitolando: abbiamo il corpo di una giovane donna (mutilato in maniera chirurgica) abbandonato su un marciapiede di un quartiere di Los Angeles, non c’è traccia né di sangue né di una possibile pista per rintracciare la scena del crimine primaria. Il caso dovrebbe essere definitivamente chiuso, ma non andò effettivamente così.
Furono oltre 20 le persone accusate del delitto, anche se nel fascicolo originale erano presenti centinaia di altri sospettati. Iniziarono ad arrivare addirittura persone che si professavano colpevoli del delitto, in cerca forse di un po’ di fama. E non mancavano nemmeno i complotti: alcuni erano convinti che la “Black Dahlia” fosse stata uccisa perché era venuta a conoscenza di qualche segreto o che addirittura portasse in grembo il figlio di qualche celebrità.
Insomma, gli investigatori brancolavano nel buio!
Eppure, c’era un dettaglio di quell’omicidio così violento che racchiudeva dentro di sé un possibile indizio: il corpo era stato mutilato, ma soltanto un medico (o un chirurgo esperto) avrebbe potuto infliggere quella ferita.
Questo dettaglio non sfuggì all’agente Steve Holden, ex detective della polizia di Los Angeles. Steve, infatti, dedicò gran parte della sua vita a questo caso e il motivo fu molto semplice: era convinto che il padre, il dottor George Hill Hodel, fosse il vero e proprio omicida.
Dall’intervista del “The Guardian” venne fuori una coincidenza davvero incredibile:
“Mentre esaminava gli averi di suo padre, Steve trovò un album fotografico nascosto in una scatola. Era abbastanza piccolo da stare nel palmo della mano ed era rilegato in legno. Era pieno delle solite foto – sua madre, suo padre e i suoi fratelli – nonché i ritratti della famiglia scattati dall’artista surrealista di fama mondiale Man Ray, un amico di famiglia. Ma verso il fondo, qualcosa attirò la sua attenzione: due foto di una giovane donna, con gli occhi rivolti verso il basso, con capelli ricci e di un nero intenso. Steve ancora non sa perché gli è venuta l’idea, ma mentre guardava le immagini, ha pensato tra sé: “Mio Dio, sembra proprio la Dalia Nera.”
Steve era un detective molto in gamba, sapeva bene che quella non poteva essere solo una semplice coincidenza, così decise di scavare a fondo. Iniziò a indagare, spulciando tra i vari archivi, tra le prove ancora disponibili e cominciò a unire i pezzi del puzzle.
Ricordate che, poco fa, vi ho detto che la tecnica utilizzata per dividere il corpo di Elizabeth Short in due veniva insegnata negli anni ’30?
Bene, a quei tempi George Hill Holden, ossia il padre di Steve, frequentava la facoltà di medicina. E non finisce qui…
Poco dopo il delitto, la polizia di Los Angeles incominciò a ricevere innumerevoli lettere in cui differenti soggetti si attribuivano il merito del delitto; tra queste, il nostro Steve, ne scovò una in cui la calligrafia somigliava in modo impressionante a quella del suo defunto papà.
Bingo!
I sospetti di Steve si facevano sempre più fondati, ma per dimostrare la colpevolezza di suo padre, al di là di ogni ragionevole dubbio, doveva trovare delle prove molto più convincenti. Il caso di Elizabeth Short divenne, a poco a poco, una vera e propria ossessione: secondo i familiari Steve iniziò a chiudersi nel suo studio dalle cinque del mattino fino a tarda sera. Doveva trovare il modo di scoprire la verità, ma purtroppo quello che credeva essere solo un caso isolato, rivelò una cruda verità sempre più difficile da accettare.
“Per lui, il caso Black Dahlia era come un filo sciolto in un maglione: lo tiri delicatamente, pensando di essere arrivato alla fine, ma continua a dipanarsi. Non c’è mai stato un punto di arrivo comodo per concludere la sua indagine: ogni prova ne rivela un’altra, che a sua volta porta a un altro crimine.”
L’ex detective, infatti, riuscì a collegare diversi altri omicidi irrisolti che portavano la stessa firma e lo stesso modus operandi del killer coinvolto nel caso Black Dahlia. Un’altra donna, più o meno della stessa età di Elizabeth, fu trovata morta in un vicolo a mezzo miglio di distanza dalla casa del padre George. Il corpo era stato smembrato, inoltre fu rinvenuto nella stessa posizione di quello di Elizabeth Short.
Coincidenze?
Tuttavia, malgrado il suo impegno e i numerosi romanzi pubblicati da Steve, che riportano in modo dettagliato le sue indagini, il caso Black Dahlia rimane ancora adesso senza un colpevole.
Un delitto irrisolto reso perfetto dalla mancanza di tutte quelle tecnologie che, oggigiorno, avrebbero sicuramente permesso la cattura del suo killer!
Silvia Morreale
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Fonti:
The Guardian and Federal Bureau of Investigation
Sempre interessanti i tuoi articoli, Silvia! Ma se si riaprisse il caso con le tecnologie odierne si potrebbe trovare una soluzione? O è troppo tardi?
Sonia, grazie mille! Comunque il caso si potrebbe riaprire, ma purtroppo la maggior parte delle prove sono andate perdute. L’unico modo per tracciare il profilo di un killer a distanza di anni sarebbe stato quello di confrontare i campioni di dna (sempre se conservati bene).