“Sono venuto da lontano per via
di compiere il mio delitto, da non confon-
dersi con uno qualsiasi. Ho studiato la cosa perfetta
in modo da non lasciare traccia ne–
anche di un ago. Con il delitto è cessato insi–
eme l’odio per lui. Questa sera parto alle ore 20».
Torino, 26 Febbraio 1958 – Tengo tra le mani questa strana missiva senza darmi pace. Chi può aver scritto una cosa del genere? E perché mai inviarla alla redazione de: La Stampa? I battiti del mio cuore sovrastano il rumore dei miei pensieri al punto da impedirmi di rimanere lucida. Un vero detective deve sempre mantenere il controllo, eppure continuo a farmi coinvolgere da ogni singolo caso.
“Un tempo io e la vittima eravamo molto amici e portavamo la divisa insieme.
Poi lui mi tradì come fossi un cane. Oggi stava bene, e così la mia vendetta lo ha raggiunto.
Spero che scoprirete il suo cadavere prima che diventi marcio.
Leggendo con attenzione la lettera troverete con precisione dove è stato compiuto il mio delitto perfetto.
Diabolich”
«Diabolich» bisbiglio tra me e me, mentre con passo deciso ripercorro, avanti e indietro, l’area del mio ufficio.
Non erano trascorse nemmeno 24 ore dal rinvenimento del cadavere di Mario Giliberti, un giovane foggiano di 27 anni, che la stampa era già in subbuglio.
«Ho ucciso un uomo sulla via del Po.»
Queste, le parole del presunto assassino pronunciate al di là della cornetta direttamente al direttore del giornale. Lo stesso quotidiano che ritrovò quella lettera che ora stringevo tra le mani.
Unendo le ultime sillabe delle prime sei righe del biglietto, infatti, si componeva un indirizzo: via Fontanesi 20.
Fu così che lo trovammo: riverso nel letto in una pozza di sangue. Ucciso con ben 18 coltellate e poi coperto con lenzuola e soprabiti. Tuttavia, non fu il corpo a sconvolgere i miei pensieri, ma un altro biglietto rinvenuto proprio accanto alla vittima:
“Riuscirete a trovare l’assassino?”
Mi stava sfidando. Ci stava sfidando. Chiunque fosse l’assassino, alias Diabolich, voleva giocare e io non glielo avrei permesso.
A parte quelle lettere e una fotografia ritrovata sulla scena del delitto non avevo altro in mano. Quello che sembrava un caso ormai prossimo alla soluzione, iniziò man mano a rivelarsi sempre più complicato. La Stampa riceveva ogni giorno infinite lettere da parte di emulatori, e i torinesi sembravano così scossi dalla brutalità di quell’omicidio da cominciare ad allarmarsi per ogni piccola cosa, anche quella più insignificante. Stavamo brancolando nel buio e lui, questo, lo aveva previsto.
Mi sentivo impotente, i miei superiori mi stavano addosso e la gente aveva bisogno di una risposta. Uscii dall’ufficio, fuori pioveva e io dovevo mettere in ordine le idee. Mentre i portici che portavano a Piazza Castello fungevano da ombrello, i miei pensieri iniziarono a macinare possibili scenari.
Dopo un’ora passata a vagare nel nulla, accesi una sigaretta poggiandomi su di una panchina poco distante dall’ufficio. Il suono della pioggia accompagnava i miei ragionamenti, così presi la fotografia trovata dagli investigatori all’interno del portafogli di Mario, e cominciai ad analizzarla:
Mario era in posa insieme ad un altro soggetto, sembravano coetanei. Girando la fotografia vidi una dedica che portava il nome di un certo Aldo Cugini.
Quella grafia mi era familiare!
Ad un tratto un lampo di luce illuminò il mio volto, un indizio fin troppo semplice e troppo evidente per farci caso. Così abbagliante da renderti cieco, rallentando la messa a fuoco.
Una volta rientrata in ufficio iniziai a fare delle ricerche su questo “Cugini”. Il quadro che venne fuori fu più o meno il seguente:
- Aldo Cugini
- Bergamasco
- figlio di imprenditori
- benestante
- un figlio
- nessun precedente
Le persone lo descrivevano come “il classico bravo ragazzo” dai valori estremamente cattolici. In più si vociferava di una “presunta relazione” tra i due. Erano soltanto voci, pettegolezzi di quartiere, ma se fossero state vere, ci saremmo ritrovati di fronte a un possibile movente.
Non avevamo altro in mano, eppure sentivo di dover fare un tentativo. La grafia della dedica, infatti, somigliava moltissimo a quella delle missive. Era una pista molto debole, ma pur sempre una pista!
L’incontro con Cugini e l’accusa
Dopo l’interrogatorio avevo le idee ancora più confuse. Nonostante Aldo Cugini dichiarò la sua completa estraneità ai fatti, dandoci un alibi alquanto traballante, mi balenò alla mente che, la notte dell’omicidio, Cugini si trovava comunque dalle parti di Vercelli ed era automunito.
“Un tempo io e la vittima eravamo molto amici e portavamo la divisa insieme…”
Le parole scritte all’interno della lettera sembravano indicare proprio Aldo Cugini come possibile killer. In fondo, erano coetanei e avevano svolto la leva insieme, inoltre, sempre secondo alcune fonti, la loro amicizia proseguì anche dopo la fine del servizio militare.
Custodia Cautelare
Questo era più che sufficiente per la custodia cautelare. Fu così che, esattamente un mese dopo l’omicidio, Aldo Cugini venne rinchiuso con l’accusa di aver ucciso l’amico Mario Giliberti.
Nel tempo in cui Cugini fu in carcere, cercai disperatamente altre prove. Più concrete, più evidenti. Eppure, il vuoto assoluto. Non avevo abbastanza elementi per incastrare con assoluta certezza e al di là di ogni ragionevole dubbio Aldo Cugini.
E, come se non bastasse, i giornali continuavano a ricevere lettere da parte di Diabolich, le stesse che non facevano altro che scagionare Cugini e alimentare la fiamma del dubbio. L’assassino, dunque, era ancora in circolazione!
Avevo preso soltanto un abbaglio? Mi ero fatta condizionare dall’unico indizio in grado di dare una spiegazione logica a quell’omicidio?
Non ebbi nemmeno il tempo di riflettere: esattamente 5 mesi dopo l’arresto, il giudice istruttore fece ricadere le accuse. Nella stessa sentenza, infatti, dichiarò come il quadro probatorio non consentiva di “giungere a questioni nette e tranquillanti” sulla sua responsabilità.
Aldo Cugini, unico indiziato dell’omicidio Giliberti, era libero. La caccia all’uomo era appena cominciata!
Silvia Morreale
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Ho ideato questo articolo prendendo spunto dai fatti realmente accaduti e narrati dal giornalista Federico Ferrero